L’angoscia non è un disturbo: angosciarsi con Lacan

Nel discorso contemporaneo sono molte le parole che richiamano l’esperienza dell’angoscia. Ansia, attacchi di panico, fobie, paure… sono al centro di molti cosiddetti disturbi, raccolti e catalogati nei manuali di psichiatria più noti e utilizzati al mondo, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) e l’ICD (Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati). Parlare di “angoscia” rispetto a queste categorie significa approfondirne la clinica, non soffermarsi al livello di una diagnosi descrittiva che si vorrebbe oggettiva, ma addentrarsi nelle questioni soggettive che sottendono certi cosiddetti disturbi.

L’uso del termine giunge alla psicoanalisi a partire da Kierkegaard, che per primo, dall’ambito teologico, lo portò in filosofia. Nel ‘900 l’angoscia costituirà un tema centrale dell’esistenzialismo francese, che lo collocherà al centro dell’esperienza umana. Anche Freud vide nell’angoscia un affetto (così vengono chiamati i vissuti emotivi in psicoanalisi) particolare, diverso da tutti gli altri, e vi dedicò diverse teorie. Lacan, confrontandosi con i filosofi francesi, oltre che con Heidegger, nella sua opera di rilettura delle teorie freudiane dedica all’angoscia un intero seminario, il Seminario X, L’angoscia.

L’impero delle luci, Magritte

Parlare di angoscia, con gli esistenzialisti, Heidegger, con Freud e Lacan, vuol dire non farne una patologia, nel senso stretto della medicina. Con Kierkegaard e Sartre, l’angoscia è considerata un’esperienza costitutiva dell’essere umano.

Lacan, come psicoanalista, prosegue: l’angoscia non è un disturbo da correggere, ma una via da seguire. L’angoscia è la porta del lavoro di analisi e psicoterapia. Ha a che fare con un impossibile da comunicare, è vero, eppure lo sforzo agli albori di un’analisi è quello di parlarne.

Si parte da ciò che fa soffrire, non c’è analisi senza qualcosa che fa male. L’angoscia è una via, una via da percorrere, da interrogare. Il sintomo ha le sue buone ragioni, si tratta di rendere il dolore un’interrogazione. Darne un senso, certo, mobilitare il meccanismo del senso, che pacifica. Ma non solo: anche circoscrivere il non-senso. Al non-senso è dedicato il quadro di Magritte che ho scelto per questo post, che con la sua arte surrealista voleva rappresentare la realtà e al tempo stesso scombinarla, scombinarne il senso con una sovversione pacata, estraniare: evocare una dimensione Altra, senza che fosse così chiaro capire subito quale.

In fondo è proprio la struttura dell’angoscia lacaniana, in quanto “raccapricciante certezza” che apre all’enigma. La certezza che qualcosa di scottante è in ballo per il soggetto, pur mantenendosi l’enigma riguardo al cosa. È per questo che l’angoscia è una via da interrogare, per questo non c’è guarigione dell’angoscia, sebbene sia senz’altro possibile disangosciare.

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