Disturbo borderline di personalità: diagnosi epidemica o epidemia di diagnosi? Storia e prospettive psicoanalitiche (con Lacan)

 
Illustrazione grafica del disturbo borderline di personalità

Introduzione al disturbo borderline

La storia del concetto di “borderline” ha inizio quando sul finire dell’Ottocento cominciano a essere descritti quadri che sembrano a metà tra nevrosi e psicosi, forme più o meno attenuate di dementia precox (che oggi chiameremmo schizofrenia).

Tra i primi autori possiamo ricordare Hughes (1884) e poi Rosse (1890), il quale parlò esplicitamente di borderline insanity per definire coloro che oscillavano alternativamente tra la ragione e la follia. Freud non parlò di quadri borderline, ma di nevrosi di traslazione (isteria, nevrosi ossessiva, fobie), analizzabili, e di nevrosi narcisistiche (schizofrenia e paranoia, che oggi chiameremmo psicosi), non analizzabili. Alcuni psicoanalisti postfreudiani in seguito rilevarono che molti casi clinici erano collocabili in un'area intermedia tra le nevrosi e le psicosi, sia nel senso che vi erano delle forme apparentemente nevrotiche ma difficili da trattare, sia nel senso che vi erano dei casi vicini alla psicosi (se non addirittura manifestamente psicotici) che attiravano sempre di più l'interesse di certi analisti nello sperimentare il metodo psicoanalitico (vedi ad esempio i tentativi di Maeder, 1910, e Bjerre, 1912).

Dagli anni ‘30 del Novecento il termine “Borderline” comincia a diffondersi tra gli psichiatri americani, ma è con A. Stern (1938), Knight (1953), e Grinker et al. (1968), considerati in questo pionieri, che comincia a prendere forma un quadro clinico con delle caratteristiche specifiche.

Dunque nel corso dei decenni il concetto di disturbo borderline si è evoluto e ha acquisito nuovi significati, soprattutto con l'influenza della psicoanalisi e delle teorie sull'attaccamento. Negli anni '70 e '80, con l'introduzione del DSM-III (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association), il disturbo borderline di personalità (BPD) è stato stabilito ufficialmente come una categoria diagnostica distinta. Da quel momento, il termine ha iniziato a diffondersi rapidamente nella pratica clinica, diventando un termine di uso comune anche tra la popolazione.

Tuttavia, anche a causa della sua diffusione, e a fronte di una certa mancanza di chiarezza concettuale, il termine "borderline" ha finito per essere utilizzato in modi ambigui e talvolta impropri. È stato impiegato per descrivere una vasta gamma di comportamenti problematici. Questa elasticità del termine ha portato a una certa confusione, rendendolo un concetto "alla moda" e anche potenzialmente fuorviante. Nella clinica contemporanea, sebbene sia ampiamente usato, è importante prestare attenzione al suo impiego: sussiste il rischio che diventi un'etichetta generica con cui le persone che provano un certo disagio o instabilità emotiva possano auto-diagnosticarsi, e una diagnosi-ombrello in cui gli operatori della salute mentale (psicologi e psichiatri, psicoterapeuti) possano trovare rifugio ogni qualvolta risulti loro complicato fare diagnosi.

Kernberg, Gunderson e il DSM-III: storia del disturbo borderline di personalità

Otto Kernberg psicoanalista psichiatra austriaco americano

Otto F. Kernberg, psichiatra e psicoanalista austriaco con cittadinanza statunitense. È stato presidente onorario e didatta dell'International Psychoanalytical Association (IPA).

Per comprendere l'evoluzione del concetto di disturbo borderline di personalità (BPD), è fondamentale citare alcuni autori di riferimento che hanno contribuito a definirne i contorni teorici, i sintomi del disturbo borderline e i criteri diagnostici.

Un contributo cruciale arrivò da Otto Kernberg, che dal 1967 si è occupato dell’argomento, introducendo il concetto di “organizzazione borderline di personalità” per descrivere un livello di funzionamento psichico che si trova tra la nevrosi e la psicosi, caratterizzato da:

  • diffusione dell’identità,

  • difese primitive come la scissione,

  • esame di realtà relativamente integro.

Kerberg separa l’organizzazione borderline di personalità dal disturbo borderline di personalità, caratterizzato da:

  • instabilità emotiva (frequenti e intensi cambi d’umore),

  • paura dell’abbandono (e sforzi di evitare la separazione),

  • relazioni interpersonali instabili (caratterizzate da oscillazioni tra idealizzazione e svalutazione),

  • comportamenti autolesionistici (tentativi anticonservativi come mezzo estremo per gestire il dolore).

Un altro punto di svolta arrivò con John Gunderson, che negli anni '80 svolse un ruolo chiave nel definire i criteri per la diagnosi del disturbo borderline di personalità. Gunderson contribuì all'inclusione del disturbo borderline di personalità (BPD) nel DSM-III, delineandone i sintomi e distinguendolo da altre condizioni psichiatriche come la depressione o i disturbi di personalità narcisistica e antisociale (ancora oggi borderline e narcisismo sono spesso associati, come quando si parla di disturbo borderline con tratti narcisistici).

Spitzer e il DSM-III

Spitzer e la sua Task Force, che si occupavano della messa a punto del DSM-III (1980), cercarono di costruire una diagnosi di borderline che fosse nel contempo precisa, attendibile, valida, e utilizzabile da operatori di diverse estrazioni teoriche, in linea con la presunta dichiarata ateoreticità del Manuale.

Decisero di inserirla all'interno dei disturbi di personalità, cioè nell'asse II del DSM-III. Per quanto riguarda i criteri diagnostici, inizialmente raggrupparono i criteri relativi alle due tipologie di borderline che si erano fin lì delineate: una intesa come vicina alla psicosi, alla schizofrenia in particolare (isolamento sociale, sospettosità, idee di riferimento, inappropriatezza, ect.), l’altra incentrata sulle caratteristiche di instabilità (impulsività, rabbia, umore, relazioni…), così come emergeva dalle concettualizzazioni di Kernberg e Gunderson. Spitzer e il suo gruppo infine distinsero le due diagnosi: la prima come “borderline schizotipica”, la seconda come “borderline instabile”. Alla fine, Spitzer e il suo gruppo decisero che la nominazione di “borderline” avrebbe riguardato solo la seconda: “borderline instabile” divenne “borderline” tout court, mentre “borderline schizotipica” divenne la “personalità schizotipica”. Così è rimasto anche nel DSM-III TR e sostanzialmente fino al DSM 5 odierno.

Possiamo dire che con questa definizione la personalità borderline risulta più lontana dall’ambito clinico della schizofrenia e più vicina a quello del disturbo bipolare.

Disturbo borderline di personalità o funzionamento borderline?

Come possiamo desumere da quanto esposto, una distinzione importante, spesso fonte di confusione, è quella tra disturbo borderline di personalità (BPD) e funzionamento borderline. Anche se i due concetti possono sembrare simili, si riferiscono a quadri diversi. Si tratta della differenza che Kernberg ha aiutato a chiarire, discussa precedentemente.

Copertina del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali quinta edizione

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), quinta edizione (2013), è lo strumento tassonomico e diagnostico pubblicato dall'American Psychiatric Association.

Il disturbo borderline di personalità è una diagnosi clinica specifica, inclusa ad oggi nel DSM-5, che si riferisce a una condizione caratterizzata da una serie di sintomi specifici, come l'instabilità emotiva, la paura di essere abbandonati, le relazioni interpersonali tumultuose, l'impulsività e comportamenti autolesionistici. Le persone diagnosticatili con BPD spesso lottano con una visione frammentata di sé e degli altri, che può portare a oscillazioni tra idealizzazione e svalutazione nelle relazioni, nonché a profondi cambiamenti dell'umore.

Il funzionamento borderline, invece, è un concetto più ampio e descrive un livello di organizzazione della personalità che si colloca a metà strada tra la psicosi e la nevrosi. Questo concetto, sviluppato principalmente da Otto Kernberg e presente anche nella diagnosi psicoanalitica della personalità proposta da Nancy McWilliams, riguarda la struttura e il funzionamento complessivo della personalità, piuttosto che la presenza di una specifica diagnosi come il BPD. Una persona con un funzionamento borderline può non soddisfare tutti i criteri diagnostici per il disturbo borderline di personalità, ma può comunque mostrare alcune caratteristiche comuni, come la difficoltà a mantenere relazioni stabili e la tendenza a vivere intensi conflitti interni e nelle relazioni.

Fotogramma (frame) di Ragazze interrotte film del 1999 su ragazza con disturbo borderline di personalità

Ragazze interrotte (Girls interrupted), film del 1999. Una giovane donna con diagnosi di disturbo borderline, trascorre diciotto mesi in un istituto psichiatrico alla fine degli anni ‘60.

La differenza chiave è quindi che il disturbo borderline di personalità è una diagnosi formale con criteri specifici, mentre il funzionamento borderline si riferisce a un livello più generale di organizzazione della personalità, che non necessariamente implica la presenza di un disturbo diagnosticabile. Persone con un cosiddetto funzionamento borderline possono avere tratti simili a quelli del BPD, come l'instabilità emotiva e la difficoltà di regolazione affettiva, ma potrebbero non manifestare l'intero spettro dei sintomi del disturbo borderline.

Disturbo borderline di personalità ad alto funzionamento

La diffusione epidemica del concetto di borderline nelle istituzioni di cura e negli studi di psicologi e psichiatri, comporta anche un continuo rimodellamento della diagnosi e la nascita di nuove varianti. È il caso del cosiddetto Disturbo borderline di personalità ad alto funzionamento.

Il disturbo borderline di personalità ad alto funzionamento si riferisce a persone che, nonostante presentino tratti tipici del disturbo borderline, riescono a mantenere un'apparenza di stabilità e “successo” sociale. All’esterno, possono sembrare sicure, competenti e socialmente integrate. Sul lavoro, sono apprezzate per la loro efficienza, tra gli amici risultano ottimiste e divertenti. Tuttavia, internamente prevalgono sentimenti di vuoto, solitudine e un'intensa autocritica.

Queste persone faticano a riconoscere il proprio valore personale, nonostante i complimenti e l'affetto che ricevono. I legami sociali appaiono superficiali, e dietro una vita apparentemente normale si nasconde una profonda insicurezza emotiva. Spesso, chi soffre di un disturbo borderline ad alto funzionamento non riceve precocemente una diagnosi, poiché non mostra i sintomi tipici del disturbo borderline di personalità, come l’impulsività evidente o i comportamenti autolesionistici. Questo può portare a una sensazione di essere "non abbastanza malati" per ricevere aiuto, alimentando vissuti di vergogna e senso di colpa.

La discrepanza tra l'apparenza esterna e il disagio interiore rende difficile per queste persone chiedere e ottenere un trattamento, perpetuando un ciclo di solitudine e sofferenza emotiva silenziosa.

Disturbo borderline e psicoanalisi

Il concetto di borderline è nato e si è sviluppato anche attraverso clinici e teorici con orientamento psicodinamico e psicoanalitico, soprattutto di stampo nordamericano (psicoanalisi relazionale, psicoanalisi interpersonale e intersoggettiva). Anche André Green, psicoanalista francese, ha dedicato diversi lavori alla psicoanalisi degli “stati limite” (traduzione del termine “borderline”). Ma all’interno del movimento psicoanalitico si rilevano alcune posizioni critiche.

André Green psicoanalista francese del novecento allievo di Lacan

André Green, psicoanalista francese. Tra gli autori più prolifici della scuola psicoanalitica francese del '900. Per un certo periodo seguì i seminari di Lacan.


Disturbo borderline e Lacan: diagnosi psichiatrica versus diagnosi strutturale

Per quanto riguarda la psicoanalisi lacaniana, l’importanza dell’“oceano borderline” (per riprendere un’espressione di Cacrini) è stata relativizzata. O meglio: “borderline” non è stata accolta come struttura separata da nevrosi e psicosi, ma come quadro fenomenologico, cioè un insieme di sintomi intesi come sintomi psichiatrici e non come sintomi psicoanalitici. Di per sé, l’instabilità e l’ipersensibilità nei rapporti interpersonali, l’instabilità nell'immagine di sé, le estreme fluttuazioni dell'umore e l’impulsività (i sintomi del disturbo borderline di personalità), non dicono ancora molto circa la diagnosi, che nella lettura lacaniana della psicoanalisi di Freud è concepita come diagnosi di struttura. Fare diagnosi strutturale significa che a partire dai fenomeni clinici, che emergono sotto transfert (vedi Clinica-Sotto-Transfert, Miller), occorre ricostruire la logica inconscia che li produce, cioè rintracciare la posizione soggettiva da cui emergono. In questo senso, la parola “borderline” rischia di essere, anziché un aiuto per il paziente che soffre, una difesa per il clinico, che può opporre un suo sapere davanti all’incontro potenzialmente angosciante con la singolarità del paziente piuttosto che un modo di aiutarlo a produrre un proprio sapere e un proprio saperci-fare a partire dai sintomi di cui soffre. Questa ultima operazione richiede che si entri nel merito delle questioni soggettive che per quel soggetto si manifestano eventualmente tramite quei fenomeni clinici, laddove un altro modo di fare clinica si accontenta di cercare a priori (prima dell’incontro col paziente) le cause, le caratteristiche e le modalità di trattamento del disturbo borderline, supposte valide per chiunque entri nelle maglie di questa categoria. Maglie, peraltro, piuttosto lasse e un poco incerte, come abbiamo visto.

Borderline o psicosi ordinaria?

Jacques-Alain Miller psicoanalista francese allievo di Lacan curatore testamentario

Jacques-Alain Miller, psicoanalista francese, allievo e curatore testamentario di Jacques Lacan.

L’interogazione sulle forme contemporanee dei sintomi e delle sofferenze dei soggetti, in trasformazione in quanto la clinica non è separata dal contesto sociale in cui si elabora, ha portato gli psicoanalisti lacaniani verso concettualizzazioni diverse da quella di “borderline”. Per esempio, Jacques-Alain Miller ha proposto l’espressione di “psicosi ordinaria per cogliere certe particolarità inedite della psicosi. Alcune forme “borderline” potrebbero avere a che fare col quadro clinico proposto da Miller. Altre volte, potrebbe trattarsi di forme nevrotiche particolarmente gravi o comunque appariscenti, o ancora, forme di psicosi non scatenate. È impossibile dirlo a priori a partire dalla fenomenologia dei sintomi, occorre procedere caso per caso, all’interno del dispositivo analitico.

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25-26.5.24 – Le uscite dall’analisi (EVENTO - CONVEGNO SLPcf)