25-26.5.24 – Le uscite dall’analisi (EVENTO - CONVEGNO SLPcf)

Presentazione del XXI convegno nazionale della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del campo freudiano (SLPcf)

Nel XX Convegno della SLPcf dal titolo L’entrata in analisi e i suoi preliminari, che si è tenuto lo scorso maggio a Napoli, dopo circa 30 anni siamo tornati a interrogarci su come iniziano le analisi, con la necessità di verificare i cambiamenti delle condizioni che generano oggi la domanda indirizzata a un analista e al tempo stesso la nostra capacità di reinventare la pratica.
Jacques-Alain Miller nel suo intervento pronunciato a Torino nel 1994 L’inizio delle analisi dice: “Sappiamo che quando autorizziamo un soggetto a iniziare l’analisi gli diamo accesso a un nuovo modo di godere dell’inconscio e dobbiamo sapere come si soddisfa la pulsione nell’analisi e con il transfert, accordata all’oggetto niente”[1], e ancora: “Infatti la pulsione non fallisce mai, può mancare la presa, ma arriva sempre alla sua meta”[2]. Il tema è stato lavorato lo scorso anno e ha dato luogo al XX Convegno.
Alla domanda di come si entra in analisi segue logicamente quella relativa alle “possibili uscite dall’analisi”.
Nel libro Come finiscono le analisi. Paradossi della passe, J.-A. Miller riporta un suo intervento del settembre del 1992, pronunciato a Milano all’interno di un Atelier della Scuola Europea di Psicoanalisi: “Nelle congiunture di attivazione dell’uscita dall’analisi entrano in gioco due concetti che compongono un’espressione originale mai impiegata fin qui: il primo è quello di uscita dall’analisi. Il più delle volte si è riflettuto sulla fine dell’analisi, intendendo come fine il suo compimento. Si considera poi un altro campo di esplorazione accanto a quello della fine che è, per esempio, quello della sua interruzione. È però difficile dire che ogni analisi non compiuta sia interrotta. Alcune analisi terminano effettivamente con un: è finita, quando ma­gari né l’analista né l’analizzante pensano sia stato ottenuto il non plus ultra per il soggetto, ma senza che ciò prenda la forma della rottura. Si sente quindi la necessità di introdurre un concetto più ampio e anche più indifferenziato, simmetrico a quello di ingresso in analisi, che è semplicemente quello di uscita dall’analisi”[3].
Sappiamo che Sigmund Freud nel saggio del 1937 Analisi terminabile e interminabile interrogandosi su cosa s’intenda con l’espressione “fine di un’analisi”[4] dica inoltre che è facile definirla sul piano pratico, cito: “L’analisi è terminata quando paziente e analista smettono di incontrarsi in occasione delle sedute analitiche”[5]. Nello stesso testo continua affermando che ciò si verifica nel sussistere di due condizioni: la prima è che sul versante del paziente, egli non soffra più dei suoi sintomi, abbia superato le sue angosce e le sue inibizioni, sul versante dell’analista che egli giudichi sia stato reso cosciente gran parte del materiale rimosso, siano state chiarite tante cose inesplicabili, siano state debellate tante resistenze da non temere il rinnovarsi di processi patologici.
Freud precisa che se queste due condizioni non si sono verificate per cause esterne, è meglio parlare di analisi incompleta e non di analisi non finita.
Al concetto di “fine di un’analisi” Freud attribuisce un significato di gran lunga più ambizioso, ovvero: “[…] se l’azione esercitata sul paziente sia stata portata avanti a tal segno che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. Dunque è come se mediante l’analisi si potesse raggiungere un livello di assoluta normalità psichica, al quale, per di più, fosse lecito attribuire la facoltà di mantenersi stabile”[6].
Poche pagine dopo Freud scrive: “Quasi sempre esistono manifestazioni residue, un parziale restare indietro”[7]. Quasi a smentire l’esistenza della fine di un’analisi.
Alla fine del suo saggio, e a soli due anni dalla sua morte, Freud si lascia andare a una amara constatazione: “[…] la resistenza non consente che si produca alcun mutamento, tutto rimane così com’era. Abbiamo spesso l’impressione che con il desiderio del pene e con la protesta virile, dopo aver attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roccia basilare, e quindi al termine della nostra attività”[8]. Possiamo riassumere nel rifiuto della legge paterna della castrazione, l’impasse di Freud, e su questo l’arresto dell’analisi.
Jacques Lacan, per superare l’impasse di Freud, indirizzerà l’esperienza analitica verso il reale del godimento, al di là dell’Edipo e al di là del fallo, fino all’assunzione della posizione femminile e non più al suo rifiuto.
Dalla Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola: “Il passaggio da psicoanalizzante a psicoanalista ha una porta il cui cardine è quel resto che costituisce la loro divisione, dato che questa altro non è che la divisione del soggetto, di cui quel resto è la causa”[9].
Da qui l’invenzione da parte di Lacan della Procedura della Passe che ha come punto centrale la trasmissione di sapere su tale passaggio e sul sorgere del desiderio dell’analista.
In questa distinzione tra “fine analisi” e “uscite dall’analisi” al plurale, nelle loro differenti articolazioni, si colloca l’orizzonte entro il quale stabilire i lavori del XXI Convegno della SLPcf del 25 e 26 maggio 2024 a Milano.
Comunico inoltre, che il Consiglio ha nominato i direttori del XXI Convegno della SLPcf: Matteo Bonazzi, Florencia Medici e Sebastiano Vinci.

Care colleghe e cari colleghi, buon lavoro!

Laura Storti


Maggiori informazioni su www.xxiconvegno2024.slp-cf.it e su www.slp-cf.it.

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